Eluana: la decisione della Consulta
che, in punto di ammissibilità, il Senato osserva che «il proposito del ricorso è unicamente quello di dimostrare che la sentenza ha fissato un principio di diritto debordando verso le attribuzioni del Legislativo e superando, quindi, i limiti che l’ordinamento pone al Potere Giudiziario, e non quello di un invito al riesame del processo logico seguito dalla Cassazione per giungere alla sua pronuncia»: non si tratterebbe perciò di rilevare un error in iudicando, ma l’esorbitanza dai «confini stessi della giurisdizione»; in tale ottica, la censura rivolta agli «errori interpretativi dell’organo giudiziario» costituirebbe «passaggio essenziale al fine di mettere in evidenza il momento e il modo in cui il giudice» avrebbe ecceduto dalla funzione sua propria;
che, nel merito, il Senato ritiene che la Corte di cassazione abbia adottato «un atto sostanzialmente legislativo», con cui «si introduce nell’ordinamento italiano l’autorizzazione alla cessazione della vita del paziente in stato vegetativo permanente», omettendo di conseguire tale effetto tramite la sola via aperta al giudice in tal caso, ovvero sollevando questione di costituzionalità sugli artt. 357 e 424 cod. civ., nella parte in cui essi precluderebbero la piena tutela del diritto alla salute; la Cassazione, in altri termini, avrebbe «inteso trovare, nelle pieghe dell’ordinamento, un appiglio normativo che consentisse di formulare il principio di diritto che abilitasse a determinare la cessazione della vita del paziente»; per far ciò, prosegue il Senato, «ha dovuto far ricorso a sporadiche sentenze di giudici appartenenti ad ordinamenti diversi da quello italiano e alla Convenzione di Oviedo (…) ignorando che in diritto positivo italiano esistono già norme utilizzabili nel caso di specie e, in particolare, quelle del codice penale (artt. 579 e 580 cod. pen.)»;
che, per tale via, la Cassazione avrebbe esorbitato dalla propria funzione nomofilattica, ledendo le attribuzioni assegnate dall’art. 70 della Costituzione al Parlamento: la fattispecie avrebbe dovuto essere decisa non già tramite un non liquet, ma riconoscendo l’infondatezza della pretesa alla luce del diritto vigente; infatti, spetterebbe al Parlamento «adottare una soddisfacente disciplina diretta a regolare le scelte di fine vita»: sostiene il ricorrente che «la riconduzione della tematica in parola all’interno del circuito della rappresentanza politica parlamentare consente di assicurare la partecipazione delle più svariate componenti della società civile, ivi comprese quelle espressione del mondo scientifico, culturale, religioso. Secondo una impostazione che appare difficilmente contestabile il ricorso alla legge permette di rispettare il principio dell’art. 67 della Costituzione nella adozione di scelte di sicuro interesse dell’intera comunità nazionale», in particolar modo in presenza di una disciplina dei diritti fondamentali «riservata alla legge»;
che il Senato pone poi in rilievo che l’Autorità giudiziaria avrebbe articolato i propri provvedimenti su due punti, entrambi contestabili, ovvero «il diritto del malato di conseguire l’interruzione di trattamenti sanitari» e «la esercitabilità di tale diritto da parte del tutore»;
che, quanto al primo punto, il ricorrente osserva che l’alimentazione e l’idratazione assistita sono solo da alcuni ritenute trattamento terapeutico, mentre altri li considerano «cure essenziali doverosamente impartite dal sanitario», che avrebbe, anche sulla base del documento redatto dal Comitato nazionale di bioetica del 18 dicembre 2003, il «dovere di procedere»; ad ogni modo, in difetto di «una normativa intesa a determinare la interruzione di trattamenti del malato terminale», la stessa Corte di Cassazione in precedente pronuncia (ordinanza n. 8291 del 2005) ed il Tribunale di Roma (con sentenza del 15 dicembre 2006) avevano escluso che il giudice potesse in tale materia espletare «attività sostanzialmente paranormativa»;
che, piuttosto, sia l’art. 2 della CEDU (come interpretato dalla Corte EDU con la sentenza Pretty v. Gran Bretagna del 29 aprile 2002), sia l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sottolineano, a parere del ricorrente, la «essenzialità del principio di tutela della vita», così saldandosi all’art. 27 della Costituzione e agli artt. 579 e 580 cod. pen., in tema di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio: «esistono, quindi, due modi contrapposti di considerare la persona e i suoi diritti inviolabili che conducono a leggere la decisione sulla interruzione della alimentazione o come causa del decesso o come manifestazione della libera determinazione della cessazione di un trattamento terapeutico inaccettabile in quanto sproporzionato e inutile»;
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