Non sono le parole di Laura Boldrini (che ha smentito) ma, secondo me, l’estrema sintesi di una recente sentenza penale.
Ne ho già scritto ieri, per LSDI, ma sento la necessità di rileggere la vicenda anche perché il caso è molto simile ad uno che ho trattato, come avvocato, proprio di recente (e conclusosi, però con un’ampia assoluzione, solidamente motivata).
Mi riferisco alla condanna, per diffamazione, recentemente inflitta, a Varese, ad una giovane blogger: non per i propri scritti, ma per quelli di altri.
C’è un blog, con annessa area forum, come ce ne sono tanti. Si occupa del sogno di scrivere. Lo gestisce una ventenne, poco più. Si discute delle difficoltà di pubblicare i propri scritti: animatamente, molto animatamente, troppo animatamente. E, così, scatta la querela.
Tutto arriva in procura. Il blog è lì, con la sua pancia piena di dati tra cui anche quelli che possono far risalire al responsabile dell’illecito. Però, esattamente come nel mio caso, non si fa nulla. Si va semplicemente a cercare il gestore del blog che, immediatamente e senza alcuna riflessione critica, diventa responsabile, addirittura in sede penale (dove occorrerebbe un rigore decisamente maggiore). Non in concorso col vero diffamatore, ma “direttamente”, in proprio.
Il capo d’imputazione cita tutto e di più: codice penale, legge sulla stampa, addirittura la legge Mammì sulla radiotelevisione. Usiamo tutte le armi, anche le corazzate in una battaglia campale, qualcosa succederà.
Una gran confusione che, infatti, costringe addirittura il giudice a ricostruire la volontà dell’accusa.
Comunque sia, qualcosa in effetti succede perché, incredibilmente, la giovane viene condannata.
Prima, si fa un certo excursus sulla nozione di stampa (excursus anche dotto, se vogliamo), dimenticando, però, che la Cassazione ha più volte negato l’equazione Internet=stampa. Vero è che, da noi, non vige la regola del precedente, ma la delicatezza dell’argomento avrebbe consigliato un certo confronto con le tesi della Suprema Corte.
Secondo passaggio, abbastanza clamoroso. Internet può essere stampa, ma quel sito in concreto, con il suo àmbito di mera discussione, non lo è (e si può essere anche d’accordo, c’è un precedente specifico proprio sui forum). Però, va detto sin d’ora, alla fine alla fine ci sarà condanna senza alcuna concreta correzione del capo d’imputazione che, come detto, cita legge sulla stampa e legge Mammì.
Terzo e ultimo passaggio: però, l’amministratrice è, comunque, responsabile per ciò che è stato scritto all’interno dello spazio dalla stessa gestito. Così, senza spiegazioni, e con la conseguenza immediata che, allora, in termini generali di ogni luogo di discussione è sempre e comunque responsabile chi lo gestisce, che moderi o non moderi gli interventi. In barba, per giunta, alle regole, oramai ben acquisite, che fissano solidi paletti circa le responsabilità dei soggetti della società dell’informazione (d.lgs. 70/2003).
Da oggi, quindi, tutti saranno autorizzati a querelare Facebook oppure Twitter (qualcuno l’ha già fatto…).
Ignoranza o pregiudizio? Entrambe le cose, credo.
Ignoranza perché, oltre a leggi e sentenze assai rilevanti sul tema, si sconosce il funzionamento di certi contesti telematici. Un tempo si credeva di poter pretendere certe responsabilità per fatto altrui perché vi era comunque una qualche possibilità di controllo (ad esempio, la lettura dei vari articoli che si assemblavano in una redazione). Oggi non è più così, però non ce ne si rende conto e si applicano leggi vecchie (oltre che discutibili) a contesti nuovi, rivoluzionati, diversi
Anche pregiudizio, forse. Non sono stato l’unico a notarlo, mi fa piacere. Un significativo passaggio della sentenza, dai chiari toni paternalistici: “Le conseguenze sanzionatorie dei reati – si tratta di più azioni, unite dall’identità di disegno criminoso – possono essere contenute, in ragione della giovane età dell’imputata e di una sua possibile sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se veicolata dai mezzi di comunicazione”.
Povera piccola, credeva all’anarchia del Web.
ma queste sentenze nascono perché qualche giudice vuol far vedere quante cose di Internet sa, perché qualche avvocato ha scritto chissà che cosa, o per altre ragioni ancora?
@.mau. Un po’ tutte, secondo me… Ma il messaggio che si e’ voluto mandare secondo me e’ il mio titolo
e allora dicono a un giudice qualunque di fare una sentenza così? È questo che non mi torna.
Ciao Daniele. Ho cercato il testo integrale della sentenza, gli estratti online li temo. Se qualcuno lo trova … fatecelo sapere 🙂
http://www.micozzi.it/?p=385
e’ difficile trovare persone competenti su questo argomento, ma sembra che voi sappiate di cosa state parlando! Grazie