Il CNF sbaglia e io pago
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, con orientamento che la Sezione condivide anche in ragione della sua coerenza con la nozione elastica di soggetto pubblico fissata dal diritto comunitario in attuazione del principio dell’effetto utile, che: «l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico», con la conseguenza che «si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica». Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, si è sottolineato, «ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa». La conseguenza che ne deriva è «che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali» (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660).
Il Consiglio nazionale forense è previsto e disciplinato dagli articoli 52 e seguenti del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, ed è stato oggetto di una nuova regolamentazione ad opera della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense).
L’analisi complessiva della predetta disciplina e del contesto normativo in cui si inserisce induce a ritenere che il CNF, a seconda degli ambiti in cui interviene, può svolgere “attività amministrativa”, “giurisdizionale” e “di impresa”. A tale ultimo proposito, la giurisprudenza europea e nazionale ha affermato che la nozione europea di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE. In particolare, si è rilevato che un’organizzazione professionale, quando adotta un atto come il codice deontologico, «non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né prerogative tipiche dei pubblici poteri». Essa «appare come l’organo di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro, un’attività economica» (Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, C-136/12; Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238, che ha esaminato una questione analoga a quella in esame).
Nella fattispecie concreta il CNF ha adottato atti che, per il loro contenuto, devono essere qualificati come “decisioni” di imprese in quanto idonee ad incidere sul comportamento economico dell’attività professionale svolta dagli avvocati. La negazione di un diritto alla diffusione di una peculiare forma di pubblicità rappresenta, infatti, una condotta in grado di limitare l’ambito di mercato da parte di chi esercita la professione di avvocato.
Ne consegue che, in applicazione dell’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, deve ritenre che, nella specie, la peculiare attività svolta dal CNF lo qualifica non come ente pubblico nell’esercizio di funzioni amministrative o sostanzialmente giurisdizionali ma come “associazione di imprese”.
L’AGCM ha, pertanto, correttamente applicato il procedimento contemplato dagli artt. 101 e ss. TFUE e 2 della legge n. 287 del 1990 e non quello previsto dall’art. 21-bis della legge n. 287 del 1990.
6.2.– Con un quarto motivo, si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dell’art. 47 della Carta europea dei diritti dell’uomo. In particolare, si assume che il d.p.r. 30 aprile 1998 (Regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato) non garantirebbe il principio del giusto procedimento e quello di imparzialità dell’organo che infligge le sanzioni, che vorrebbe che venisse assicurata la separazione tra funzione istruttoria/requirente e funzione decisoria.
Il motivo non è fondato.
L’art. 6 CEDU prevede che, per aversi equo processo, «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge».
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