Il CNF sbaglia e io pago

Questa disposizione si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza “intrinsecamente penale” della misura; ii) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella casua Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata

Questa Sezione ha giù avuto modo di affermare come, in applicazione dei principi posti dalla Corte EDU, all’interno della più ampia categoria di “accusa penale” occorre distinguere tra un diritto penale in senso stretto (“hard core of criminal law”) e casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale.

Al di fuori del c.d. hard core, l’art. 6, par. 1, della Convenzione è rispettato in presenza di “sanzioni penali” imposte in prima istanza da un organo amministrativo – anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di effettività del contraddittorio – purché sia assicurata una possibilità di ricorso dinnanzi ad un giudice munito di poteri di “piena giurisdizione”, con la conseguenza che le garanzie previste dalla disposizione in questione possano attuarsi compiutamente in sede giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. VI, 26 marzo 2015 n. 1595 e n. 1596).

Nella fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare, al grado di severità della stessa, ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08).

Nondimeno, a prescindere dall’effettiva difformità del regolamento di procedura rispetto al parametro convenzionale, le garanzie imposte dall’art. 6 sono rispettate nel presente giudizio di “piena giurisdizione”.

A ciò si aggiunga che l’appellante comunque non ha indicato in che modo, in concreto, l’asserito “scarto” tra garanzie assicurate dalle norme internazionali e quelle previste dalla norma nazionale regolamentare abbia pregiudicato il proprio diritto di difesa. In particolare, per quanto attiene alla dedotta mancata distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie deve rilevarsi, come correttamente evidenziato dal primo giudice, che inizialmente erano state contestate al CNF due distinte intese ma poi il Collegio ha ritenuto esistente una sola intesa.

6.3.– Con un quinto motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ritenuto che il sistema di pubblicità e di offerta delle prestazioni degli avvocati affiliati al «circuito Amica Card» non sia illegittimo. In particolare, l’appellante ha rilevato come: i) si tratterebbe di una pubblicità in contrasto con i requisiti di legge, in quanto «non diretta a fornire informazioni sulla struttura, specializzazione e capacità dello studio legale», essendo basata «su di un mero “sconto” di cui rimangono ignote le basi di calcolo e il tipo di prestazioni cui si fa riferimento»; ii) «il sistema degli “sconti” riservati soltanto agli utenti iscritti ad Amica Card, a fronte del carattere oneroso sia della iscrizione dei clienti sia della partecipazione degli avvocati affiliati al “circuito” dà luogo ad un sistema di intermediazione nella ricerca della clientela (procacciamento), come tale anch’esso vietato dal codice deontologico, che per legge spetta all’ordine forense far rispettare».

Il motivo non è fondato.

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