Tutti ne hanno parlato, tanti l’hanno commentata, ancor prima di leggere le motivazioni (anche se, in parte, prevedibili, visto il dispositivo). Parlo dell sentenza n. 26889 delle sezioni unite penali della Suprema Corte, depositata lo scorso 1° luglio, in tema di “captatori informatici”.
Anche nell’editoria giuridica, pure quella “lato senso” fatta di iniziative di singoli, c’è quell’ansia da cronaca che spinge a dare la notizia subito, prima degli altri, in una vera e propria competizione tra autoreferenti dalla sententia precox che, però, se badiamo alla sostanza giuridica non ha alcun senso, anzi può essere dannosa. E’ stata una tentazione anche per me, talvolta.
Il diritto è sì attualità, ma non proprio mera cronaca. Altrimenti, si scade in certi spettacoli pietosi come quelli del voyeurismo giudiziario à la Quarto Grado.
E’ importante conoscere il più recente orientamento giurisprudenziale, ma con il solo dispositivo, se non si conoscono bene gli atti, fare a meno delle motivazioni è profondamente sbagliato; almeno da un punto di vista scientifico, se non vogliamo fare, appunto, mera cronaca e pavoneggiarci per aver dato per primi la notizia.
Detto ciò, cosa sono i “captatori informatici”? Si tratta di software, di fatto “malware” ovvero, più in popolarmente, “virus” o “trojan”, inseriti, segretamente, in dispositivi informatici/telematici, normalmente mobili, al fine di procedere ad intercettazioni. Insomma: vere e proprie “cimici informatiche” anche se, proprio per la mobilità dei sistemi su cui sono installati di solito, non sono fissi, ma possono captare ovunque siano trasportati.
Sulla carta, un software di quel genere, nelle sue versioni più complesse, può attivare non soltanto il microfono (caso più frequente e proprio dei “captatori”), ma tutte le funzionalità del dispositivo: la fotocamera, la radio GPS, le altre radio in genere. In pratica può letteralmente telecomandare il device.
Qui, ovviamente, parliamo di programmi installati a fini giudiziari, altrimenti staremmo a discutere di intercettazioni abusive, accessi abusivi, violazioni di domicilio, ecc.
Anche su quest’ultimo profilo, avevo già scritto tempo fa: QUI, QUI, QUI e anche QUI.
Ma, insomma, cosa ha detto la Cassazione? Premesso che l’attività è stata fatta rientrare nell’alveo delle intercettazioni “ambientali” (e non “telefoniche” o “telematiche”), secondo me, pur con argomentazioni non certo banali, i giudici di piazza Cavour hanno scelto una via non certo pacifica e un po’ salomonica.
Malgrado il legalese, credo che il principio sia chiaro per tutti “Limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone, ecc.) – anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa“.
La soluzione tecnologica è, dunque, valida soltanto per alcune classi di reati, non per tutti.
Questa la decisione della Suprema Corte. Sta di fatto, però, che molti sono dell’idea che occorrerebbe rivedere la disciplina in tema di intercettazioni perché così, senza norme specifiche, si rischiano abusi e interpretazioni un po’ stiracchiate.
E’ il solito problema: la legge che non riesce a stare dietro alla tecnologia, neppure quando è a maglie un po’ più larghe. E ciò vale soprattutto per la materia penale, tipicamente di stretta interpretazione.
Intanto, lo dico incidentalmente, si parla di un (quasi) misterioso convegno non pubblico durante il quale si è discusso proprio di una futura disciplina in materia.
Chissà che ne sarà sortito anche se i soliti ben informati sapranno già tutto.
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