Author Archives: Daniele Minotti

Privacy e business secondo il Garante

La disciplina sulla tutela dei dati personali, malgrado alcune recenti “semplificazioni”, comporta adempimenti sovente pesanti.

A renderla un po’ più friendly, magari anche un’occasione, ci prova il Garante con la guida “La privacy dalla parte dell’impresa – Dieci pratiche aziendali per migliorare il proprio business“.

L’obiettivo dichiarato è quello di “aiutare le imprese a valorizzare il proprio patrimonio dati, trasformando la privacy da costo a risorsa, senza per questo ridurre le tutele dei diritti fondamentali della persona”.

L’iniziativa è certamente meritoria, ma io sono un po’ scettico sulle capacità recettive degli itliani. Sarei veramente felice di essere smentito.

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Avvocati e incontri social

Facebook è pieno di gruppi, pubblici e nascosti, di avvocati. D’altro canto, siamo in tantissimi (si dice anche troppi), dunque questa visibilità è del tutto normale.

I tribunali sono grandi carrozzoni, come gli ospedali e, in genere, gli uffici pubblici. Si intrecciano molte relazioni umane. Non c’è da stupirsi, allora, se nascono gruppi come quello che così si descrive

Questo gruppo è riservato ad avvocati di ambo i sessi che negli uffici giudiziari adocchiano (“spotted” in inglese) colleghe e colleghi che gradirebbero conoscere. L’iscrizione al gruppo è inibita a malati di mente, esibizionisti, sboccati, erotomani (in napoletano “rattusi”), pettegoli et similia. I post sono liberi, ma chi scade nella volgarità viene espulso, senza pietà. Esempio di post consentito: Tribunale di X, stamattina, aula del giudice Tizio. Eri vestita in rosso, con la tua praticante al seguito. Sei una fata. E’ consentito postare foto e video, purché strettamente attinenti la missione (o petitum) del gruppo: quelli ultronei verranno censurati.
Gruppo “Spotted forense
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Stop all’anarchia del Web

Non sono le parole di Laura Boldrini (che ha smentito) ma, secondo me, l’estrema sintesi di una recente sentenza penale.

Ne ho già scritto ieri, per LSDI, ma sento la necessità di rileggere la vicenda anche perché il caso è molto simile ad uno che ho trattato, come avvocato, proprio di recente (e conclusosi, però con un’ampia assoluzione, solidamente motivata).

Mi riferisco alla condanna, per diffamazione, recentemente inflitta, a Varese, ad una giovane blogger: non per i propri scritti, ma per quelli di altri.

C’è un blog, con annessa area forum, come ce ne sono tanti. Si occupa del sogno di scrivere. Lo gestisce una ventenne, poco più. Si discute delle difficoltà di pubblicare i propri scritti: animatamente, molto animatamente, troppo animatamente. E, così, scatta la querela.

Tutto arriva in procura. Il blog è lì, con la sua pancia piena di dati tra cui anche quelli che possono far risalire al responsabile dell’illecito. Però, esattamente come nel mio caso, non si fa nulla. Si va semplicemente a cercare il gestore del blog che, immediatamente e senza alcuna riflessione critica, diventa responsabile, addirittura in sede penale (dove occorrerebbe un rigore decisamente maggiore). Non in concorso col vero diffamatore, ma “direttamente”, in proprio.

Il capo d’imputazione cita tutto e di più: codice penale, legge sulla stampa, addirittura la legge Mammì sulla radiotelevisione. Usiamo tutte le armi, anche le corazzate in una battaglia campale, qualcosa succederà.

Una gran confusione che, infatti, costringe addirittura il giudice a ricostruire la volontà dell’accusa.

Comunque sia, qualcosa in effetti succede perché, incredibilmente, la giovane viene condannata.

Prima, si fa un certo excursus sulla nozione di stampa (excursus anche dotto, se vogliamo), dimenticando, però, che la Cassazione ha più volte negato l’equazione Internet=stampa. Vero è che, da noi, non vige la regola del precedente, ma la delicatezza dell’argomento avrebbe consigliato un certo confronto con le tesi della Suprema Corte.

Secondo passaggio, abbastanza clamoroso. Internet può essere stampa, ma quel sito in concreto, con il suo àmbito di mera discussione, non lo è (e si può essere anche d’accordo, c’è un precedente specifico proprio sui forum). Però, va detto sin d’ora, alla fine alla fine ci sarà condanna senza alcuna concreta correzione del capo d’imputazione che, come detto, cita legge sulla stampa e legge Mammì.

Terzo e ultimo passaggio: però, l’amministratrice è, comunque, responsabile per ciò che è stato scritto all’interno dello spazio dalla stessa gestito. Così, senza spiegazioni, e con la conseguenza immediata che, allora, in termini generali di ogni luogo di discussione è sempre e comunque responsabile chi lo gestisce, che moderi o non moderi gli interventi. In barba, per giunta, alle regole, oramai ben acquisite, che fissano solidi paletti circa le responsabilità dei soggetti della società dell’informazione (d.lgs. 70/2003).

Da oggi, quindi, tutti saranno autorizzati a querelare Facebook oppure Twitter (qualcuno l’ha già fatto…).

Ignoranza o pregiudizio? Entrambe le cose, credo.

Ignoranza perché, oltre a leggi e sentenze assai rilevanti sul tema, si sconosce il funzionamento di certi contesti telematici. Un tempo si credeva di poter pretendere certe responsabilità per fatto altrui perché vi era comunque una qualche possibilità di controllo (ad esempio, la lettura dei vari articoli che si assemblavano in una redazione). Oggi non è più così, però non ce ne si rende conto e si applicano leggi vecchie (oltre che discutibili) a contesti nuovi, rivoluzionati, diversi

Anche pregiudizio, forse. Non sono stato l’unico a notarlo, mi fa piacere. Un significativo passaggio della sentenza, dai chiari toni paternalistici: “Le conseguenze sanzionatorie dei reati – si tratta di più azioni, unite dall’identità di disegno criminoso – possono essere contenute, in ragione della giovane età dell’imputata e di una sua possibile sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se veicolata dai mezzi di comunicazione”.

Povera piccola, credeva all’anarchia del Web.

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A ridanghete

 

 

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(Io sono uno di quelli che considera Internet come tutti gli altri mezzi di comunicazione/informazione, dunque una norma del genere finirebbe per farla essere “diversa”, quando diversa non è, specie in questa prospettiva giuridica).

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Giornalettismo > Laura Boldrini e le leggi sul Web a sua insaputa

(da Giornalettismo del 3 maggio 2013)

Chi credeva che gli strali sulla Rete fossero appannaggio esclusivo di reazionari misoneisti eventualmente di destra si sbagliava di grosso e ora deve ricredersi. Oggi c’è stato un “uno-due” non da poco, addirittura proveniente da alcune delle più alte cariche dello Stato, di diretta discendenza di sinistra.

Prima Laura Boldrini, Presidente della Camera eletta nelle liste Sel. In una confusa intervista curata da Concita De Gregorio finiscono nel calderone le minacce alla stessa, purtroppo, ricevute con cadenza giornaliera, il femminicidio, il razzismo e la xenofobia (quelle di destra, come si specifica) e tutela dei minori. E, tra le righe, spunta l’idea di una legge speciale che permetta di intervenire a priori. Un approccio che fa paura a chiunque abbia cari i diritti fondamentali dell’uomo.

Poi, Pietro Grasso, Presidente del Senato, eletto in quota Pd, già Procuratore nazionale antimafia (non ce lo dimentichiamo). A Sky TG24 gli chiedono un commento alla parole di Boldrini e ne esce fuori la necessità di leggi ad hoc che combattano fatti come ingiurie, minacce e fatti anche più gravi.

Entrambi, dunque, parlano di leggi da fare, di un’anarchia della Rete (sic) che non si può più sopportare e che occorre fermare la valanga di insulti e minacce che viene dal Web. Tacendo, verosimilmente per ignoranza, fatti che non sono proprio dettagli.

Scendendo dalle vette del parlar figurato, ci si accorge che la Rete non è un’entità, è solo un mezzo, mediante la quale persone in carne ed ossa – altro che virtuali – compie le stesse azioni compiute sino a ieri con strumenti non tecnologici. Nessuno si è mai sognato di prendersela, ad esempio, con le Poste se qualche idiota spedisce pacchi bomba.

D’altro canto, la legislazione sul Web è sufficientemente assortita: ingiurie, diffamazioni, minacce e quant’altro sono reati già perseguibili secondo le leggi del nostro ordinamento, che sono state anche stiracchiate, se non stuprate, per adattarsi al nuovo contesto (si pensi all’inibizione della navigazione su decine di siti che ci ha fatto paragonare ai cinesi, quelli cattivi e censori, ovviamente).

Nessuno, invece, che sappia cogliere le opportunità della tecnologia, in particolare della telematica, se non, ad esempio, per lucrare sulle brutture del gioco d’azzardo, come fa ampiamente lo Stato. Nessuno che valorizzi, con apposita legislazione, le potenzialità della Rete, straordinario mezzo di comunicazione per l’esercizio dei diritti, universali, di informare e di essere informati.

Ormai abbiamo rinunciato ad avere il sogno di politici di tale sensibilità. Ma, almeno, che non pensino a leggi speciali anche perché esistono già regole applicabili eapplicate, evidentemente a loro insaputa.

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Fatti smart!

La tecnologia ci corre sempre davanti. E’ un bene, perché siamo incoraggiati a tenere il passo, ma ciò ha anche risvolti negativi perché non la conosciamo mai abbastanza, specie noi che, con l’età, non abbiamo più gambe così veloci.
Consapevolezza: è la parola magica.
Il Garante per la tutela dei dati personali lancia “Fatti smart!” una campagna di sensibilizzazione su privacy e smartphone con tanto di video tutorial.

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E-Contabilità è online

E-Contabilità “è il nuovo servizio di contabilità online facile e economico per giovani professionisti, ditte individuali, piccole medie imprese, esercizi commerciali che godono del regime di contabilità semplificata”.
E’ un progetto molto interessante, voluto da un gruppo di amici, che ho seguito per alcune parti specifiche (giuridiche).
Per questo, lo segnalo volentieri.

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Avanti così

Paola Ferrari pare che abbia veramente querelato Twitter. Non gli utenti, ma proprio Twitter Twitter.
Lo ha confermato dalla Bignardi e dice pure che va avanti.
Bah, vedremo.

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Free Generale Zhukov

L’avevo nel cassetto da anni e ne ho sempre rinviato la pubblicazione.

Chi si ricorda della condanna del blogger “generale Zhukov” ad opera del Tribunale di Aosta? Bene, questa è la sentenza di appello. La si trova spesso citata nella letteratura giuridica, pochi la conoscevano, in realtà non è del tutto inedita. Ne ho pubblicato una versione senza nomi (sebbene siano abbastanza noti e già pubblici) e limitatamente alle questioni giuridiche.

La Corte torinese, pur tenendo ferma la condanna per fatti sicuramente attribuibili al blogger, lo assolve per uno scritto anonimo. Così viene fatta giustizia rispetto ad una sentenza di primo grado che, al di là della condanna per il singolo, aveva preoccupato molti.

Due sono le conclusioni, in estrema sintesi:

  • un blog, di per sé, non è assimilabile alla stampa, dunque il titolare non ha le stesse responsabilità di un direttore; in pratica, non è penalmente perseguibile se non rimuove contenuti illeciti;

  • il blogger non ha alcun dovere di impedire la commissioni di reati mediante il suo blog (in legalese, si dice “reato omissivo improprio”).

Ai tempi ne avevo già parlato e con me molti altri.

Ora, visti anche i felici esiti della vicenda di Carlo Ruta, direi che il cerchio si è chiuso, speriamo definitivamente.

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Lsdi > Diritto all’ oblio e diritto di cronaca: Minotti, ‘’quella del Garante sembra una via accettabile’’

(da Lsdi del 28 marzo 2013)

Archivi giornalistici online sempre aggiornati. Lo ha stabilito il Garante per la privacyaccogliendo i ricorsi di due cittadini e ordinando a un gruppo editoriale di aggiornare alcuni articoli presenti nell’archivio storico on-line di un suo quotidiano.
La decisione riapre il problema della permanenza delle notizie sugli archivi digitali e del cosiddetto diritto all’ oblio, contrapposto al diritto di cronaca: un campo complesso su cui non c’ è ancora una norma specifica e che è soggetto quindi a varie interpretazioni.

Daniele Minotti affronta qui la questione con un intervento che offre un ampio quadro della situazione dal punto di vista giuridico e legislativo.

di Daniele Minotti

Il diritto all’ oblio vince la storia? L’esito finale era nell’ aria, ma, francamente, non si pensava a sviluppi così spediti e compressi nel tempo.

Nel nostro ordinamento il diritto all’ oblio, il diritto ad essere dimenticati, non è codificato. Almeno per il momento, perché la prima versione, tutta ancora da approvare, del regolamento europeo sulla privacy ne prevede l’ introduzione per tutti i Paesi dell’Unione. Ma è anche dubbio che il diritto alla rimozione dei propri dati dopo un certo periodo possa riguardare l’ attività giornalistica.

Ad ogni modo, il problema c’ è e, come è facilmente immaginabile, esso riguarda soprattutto gli archivi Internet, dove la notizia è letteralmente “permanente”.

Negli ultimi due anni, senza grandi clamori, si sono verificati alcuni accadimenti fondamentali sul tema che vanno ripercorsi anche per poter comprendere meglio le ultime novità.

E’  il gennaio del 2011 e, malgrado il diverso avviso del Garante, il Tribunale di Ortona condanna la testata online PrimaDaNoi a rimuovere un articolo, del 2006, riguardante una vicenda giudiziaria penale poi risoltasi felicemente per l’ indagato.

Il Garante aveva dato atto che, molto correttamente, la redazione aveva annotato tutti gli aggiornamenti del caso. Tuttavia, sulla scorta di “puntelli” giuridici assai generici (e poco pertinenti), il Tribunale ha ordinato la rimozione condannando, altresì, il direttore al risarcimento dei danni.

Aprile 2012. In Cassazione viene depositata la sentenza 5525/2012 della III sezione civile. Nella pronuncia si fa un ampio, quanto doveroso, excursus sui contrapposti diritti di cronaca e di identità personale (attuale), giungendo a tracciare una via mediana, cioè quella del riconoscimento del diritto di ottenere l’ integrazione ovvero l’ aggiornamento della notizia.

Gennaio 2013, la storia di Ortona si ripete: articolo già spontaneametne rettificato e aggiornato, stessa asserita violazione della riservatezza (contro il diritto di cronaca) e stesso ordine di rimozione con condanna al risarcimento.

Una “sentenza fotocopia”, coma la definisce PrimaDaNoi, peraltro sempre con quella scarna e poco pertinente motivazione che, francamente, è ancor più inaccettabile se si considera il pronunciamento della Cassazione.

E arriviamo ai giorni più recenti quando – si ricordi bene – il diritto all’ oblio è ancora in discussione a livello europeo.

Il Garante per la tutela dei dati personali annuncia due provvedimenti, adottati nei mesi scorsi, per certi versi innovativi. Il loro contenuto può essere semplicemente riassunto con la citazione di un passaggio comune: “ordina a […] di predisporre, nell’ ambito dell’ archivio storico on line del quotidiano […], un sistema idoneo a segnalare (ad esempio, a margine dei singoli articoli o in nota agli stessi) l’ esistenza degli sviluppi delle notizie relative al ricorrente”.

Si tratta, chiaramente, di un’ applicazione concreta dei principi espressi dalla Cassazione (la cui sentenza, infatti, è menzionata in motivazione) e che, lungi dal sacrificare il diritto di cronaca, pare essere una soluzione equilibrata e accettabile. Una sorta di obbligo di rettifica per fatti sopravvenuti che non pare seriamente potersi negare all’ interessato, specie relativamente alla cronaca giudiziaria penale.

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