Author Archives: Daniele Minotti

ZeusNews > Se l’abuso del computer può costar caro (2)

Succede, anche se da poco. Dopo un mio post qui, mi vengono in mente altre cose che scrivo per un articolo su ZeusNews.

(da ZeusNews del 5 maggio 2011)

Può l’abuso di Internet mettere nei guai un dipendente pubblico? Parrebbe di sì.

Sta accadendo a Bertinoro (in provincia di Forlì-Cesena), dove non uno ma ben cinque dipendenti parrebbero essere indagati per peculato e abuso d’ufficio, tutto perché avrebbero abusato degli strumenti informatici messi a disposizione, ovviamente per altri scopi, dall’Amministrazione.

E sembrerebbe non essere soltanto una questione di Facebook (sul quale si è enfatizzato parecchio visto che è il social network del momento), ma di un utilizzo massivo e generalizzato, anche per il download di materiali pornografici.

Tuttavia, visto che conosciamo ben poco del caso concreto (anche in considerazione del comprensibile riserbo dell’Autorità Giudiziaria), non possiamo che restare al piano astratto per vedere se condotte del genere possano condurre a una qualche specie di sanzione.

Per la verità non è la prima volta che ci si trova di fronte a qualcosa di simile. E parliamo del pubblico impiego dove il problema è noto da anni, tanto da aver trovato disciplina nel Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni del 2000, in seguito richiamato da un’interessantissima direttiva del Ministro Brunetta, specifica su uso di Internet e posta istituzionale.

Si capisce, dunque, che la violazione di certi doveri può portare quanto meno a un procedimento disciplinare, mentre, addirittura, nel settore privato si è parlato di un licenziamento a causa di Facebook (ma con alcuni indispensabili chiarimenti).

Rimanendo all’impiego pubblico (il “caso Bertinoro”) dove alcuni soggetti possono essere pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (anche se non è esclusiva prerogativa di detto settore), può essere realmente prospettabile un’accusa di peculato e abuso d’ufficio?

La risposta non può essere precisa, in un senso o nell’altro.

Da un lato, non si conoscono i dettagli precisi del caso concreto; dall’altro, da esso non si possono trarre principi.

Infine, non ci si può nascondere che certe tematiche si intersecano inevitabilmente con i diritti dei lavoratori (divieto di telecontrollo e, in genere, privacy).

Sicché possiamo fare soltanto un ragionamento astratto, anche facendo richiamo a materiali già disponibili.

Il primo è un precedente giurisprudenziale di Cassazione, che dovrebbe essere noto, secondo il quale in presenza di contratti flat (cioè non a consumo o a tempo) il danno economico rilevante per la norma incriminatrice (l’art. 316 c.p. che prevede il peculato) non è, di regola, calcolabile.

L’altro è la citata direttiva che sostiene una cosa fondamentale: «tale utilizzo non istituzionale non provoca, di norma, costi aggiuntivi, tenuto conto della modalità di pagamento flat […] utilizzata nella generalità dei casi dalle Amministrazioni per l’utilizzo di quasi tutte le risorse ICT».

Occorre evitare, dunque, di pronunciare sentenze definitive sull’indagine di Bertinoro (sulla quale, comunque, chi scrive nutre non poche perplessità), ma attenzione anche a non abusare degli strumenti di lavoro perché un procedimento penale può già essere la vera pena e il licenziamento (pur a certe condizioni) non è certo da escludere a priori.

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Se la pubblicità fa informazione

Penso che molti conoscano il Registro Pubblico delle Opposizioni, vale a dire quel registro nel quale il cittadino, il cui numero è presente negli elenchi telefonici pubblici, può iscriversi qualora non voglia più ricevere telefonate per scopi commerciali o di ricerche di mercato.

Diciamo che la regola sarebbe stata quella dell’opt-in, ciò del consenso esplicito ad essere raggiunto da quelle telefonate. Il fatto che il nostro numero sia pubblicato sull’elenco non dovrebbe influire.

E invece no. Per effetto di un subdolo intervento legislativo del 2009, sostanzialmente “salva call-center”, la regola è stata ribaltata, giungendosi dunque al regime di opt-out, cioè alla necessità di una volontà tesa allo sganciarsi da certe comunicazioni. E il Registro citato, pur costituendone una semplificazione a favore del cittadino (che, altrimenti, avrebbe dovuto rivolgersi ai singoli call-center, o, meglio, ai vari titolari del trattamento), fa parte di questo disegno sovversivo. Per chi ama i riferimenti giuridici, ci si riferisce alle modifiche apportate all’art. 130 del cd. “Codice della Privacy”.

In questi giorni i media ci ricordano l’esistenza del Registro con uno spot voluto dal Ministero dello Sviluppo Economico.

Iniziativa lodevole, salvo poi crollare miseramente sull’imbarazzante slogan finale: “Uomo registrato un po’ meno informatico”. Ma informato di cosa? Nessuna di quelle chiamate fa informazione, eppure, alla fine, con la battuta di effetto si cerca ancora una volta di salvare la baracca lasciando intendere che il telemarketing ha una nobile funzione, cioè quella di informarci.

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Se l’abuso del computer può costar caro

Utilizzare Facebook sul posto di lavoro può condurre ad un procedimento penale per peculato e abuso d’ufficio? Se si tratta di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio (figure normalmente – ma non esclusivamente – tipiche del pubblico impiego), la Procura di Forlì-Cesena risponde affermativamente. Lo riferisce il Resto del Carlino (che pone l’enfasi soprattutto sul social network, ma il problema è generalizzato) e la notizia si sta già propagando in Rete.

Personalmente, ho qualche perplessità. Non è la prima volta che per l’abuso di strumenti informatici, specie se collegati ad Internet, si ipotizza il peculato. Infatti, si conosce almeno un precedente di Cassazione abbastanza noto.

Il fatto è che, come dice la sentenza citata, per il reato in esame occorre verificare la sussistenza di un danno che però, come sappiamo, in presenza di utenze “flat” non è calcolabile.

Fermo restando che, come tengo sempre a dire, sulla scorta di un articolo giornalistico non si traggono conclusioni giuridiche. In più, da un caso concreto non si trae necessariamente un principio.

Prudenza, dunque.

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Realmente virtuale

Anche l’ultimo dei praticanti avvocati sa che non sempre i giornalisti sono in grado di fare cronaca giudiziaria e che, allora, bisogna un po’ guidarli, prendendoli per mano per quella materia un po’ esoterica che è il diritto.

Strafalcioni giuridici come “reato penale” (un reato è già un illecito penale, non c’è bisogno di ribadirne la natura) oppure la prescrizione che diventa assoluzione sono, tutto sommato, peccati veniali, se commessi in buona fede.

Il problemi emergono e si aggravano non poco quando si ricostruiscono male i fatti di un processo oppure si stravolge il senso di una sentenza. E accade sovente quando non si leggono le motivazioni perché ad aspettarle la notizia si sgonfia.

A fine novembre 2010 era uscita la notizia di una sentenza del tribunale di Milano, prima in Italia ad occuparsi di pedopornografia virtuale. QUI una stringa di ricerca su Google, per farsi un’idea.

Apparentemente, la notizia era stata data in prima battuta da TGCOM e Sky TG 24 (testata che ci ha messo del suo sostenendo che la sentenza era del tribunale dei Minorenni – sic).

Il 25 novembre commentavo la notizia: con cautela (non conoscevo la motivazione, verosimilmente non ancora depositata), ma con qualche perplessità, perché la cronaca lasciava intendere la punizione anche per cartoni animati. Senza falsa modestia: ci avevo azzeccato.

Recentemente, si è potuta leggere la sentenza per esteso e si è capito che la condanna, per il reato di cui all’art. 600-quater. 1. c.p., non riguardava immagini realistiche o, peggio, semplici cartoni animati, ma “immagini tridimensionali, realizzate con elevata qualità grafica che rappresentano figure umane plastiche e proporzionate di adulti e minori coinvolti in atti sessuali dove alla sommità del corpo del minorenne è stata apposta l’immagine bidimensionale ritraente un bambino realmente esistente”.

Non sono qui a discutere di morale, bensì soltanto di diritto, quello vigente: la sentenza, conformemente alla legge, esclude la rilevanza penale di prodotti come manga e anime raffiguranti minori. E questo era uno dei dubbi (sinceramente non miei) di molti.

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ZeusNews > A casa dell’imputato (2)

Ho scritto una cosa per ZeusNews sull’argomento dell’altro giorno, quello della competenza in caso di diffamazione telematica. In linguaggio meno legalese, ma penso un po’ più approfondito. Se avete due minuti…

(da ZeusNews del 2 maggio 2011)

Che le regole giuridiche “tradizionali” non fossero sempre facilmente applicabili alla Rete lo si sapeva praticamente da sempre. E una recente pronuncia della Cassazione ce lo conferma. Il fatto è che, pur allergica alle regole, la Rete meriterebbe qualche certezza in più, almeno da parte degli interpreti. (altro…)

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Accesso abusivo e interesse pubblico

L’art. 615-ter c.p., che prevede il reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico, contempla una serie di aggravanti specifiche. Tra queste ve n’è una che si applica quando il sistema violato è di interesse pubblico. E non c’è soltanto un aggravamento di pena, ma la perseguibilità diviene d’ufficio anziché a querela (e non sono cose da poco…).
Una sentenza di Cassazione di qualche mese fa (colpevolmente, mi era sfuggita), dice, però, che anche un sistema appartenente ad un società che opera come concessionaria di un pubblico servizio (quello telefonico, nella fattispecie) non è, di per sé, di interesse pubblico. Nel caso concreto il sistema non era quello destinato a gestire la rete telefonica, ma quello relativo alle ricariche e ciò ha fatto sorgere qualche lecito dubbio.
Interessante anche se, in effetti, un po’ per legulei.

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Astensione avvocati 23 giugno 2011

“Sciopero” avvocati su delibera OUA, ancora contro la mediaconciliazione che buona parte dell’avvocatura vorrebbe facoltativa e non obbligatoria come voluto dalla legge (sulla quale, peraltro, pende un giudizio di costituzionalità dal TAR Lazio).

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Big Brother Awards 2011

Al via oggi la raccolta delle nomination per il “premio “in negativo” che ormai da anni viene assegnato in tutto il mondo a chi piu’ ha danneggiato la privacy”.
Come sempre, a partire dalle pagine del Progetto Winston Smith.

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A casa dell’imputato

Prima o poi doveva succedere. Se non v’è certezza sul luogo di consumazione del reato di diffamazione telematica e non vi è un orientamento univoco (il mitico “luogo del server”? il domicilio della persona offesa? il luogo dell’immissione del documento, ecc.) è ovvio che i tribunali litighino (si fa per dire) tra loro per celebrare il processo. E’ il conflitto “positivo” di competenza per territorio, alla fine risolto dalla Cassazione con una sentenza (la n. 16307/2011) depositata proprio oggi (visibile QUI).
Ma la Suprema Corte, in realtà, ha tagliato corto. Pur ricordando i vari orientamenti seguiti dalla giurisprudenza (anche civile), si è arresa alla quasi impossibilità di utilizzare criteri oggettivi (nonché unici e predeterminati) affermando la piena operatività dei criteri suppletivi fissati dall’art. 9, comma 2, c.p.p. e concludendo, nel caso concreto, per la prevalenza della residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato (o indagato).
QUI il commento di Chicco Micozzi il quale ritiene che un’occhiata ai log possa aiutare a trovare ciò che per la Cassazione è difficilissimo provare. Io sono meno convinto di ciò, non per l’impossibilità tecnica, ma per la breve (almeno dovrebbe essere tale) persistenza dei log del server.

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Pseudosequestri

Per caso, sono atterrato sul blog di Marco D’Itri dove si riporta la notizia del “sequestro” (chiamiamolo così, va’…) di btjunkie (.com e .org) e, in calce, si riportano gli altri casi simili del passato.
Allora, mi e’ venuta in mente la sentenza di Cassazione sul caso The Pirate Bay, con un paio di chicche:
– “va poi ribadito che il sequestro preventivo ha carattere reale nel senso che esso ha ad oggetto l’apprensione di una res, pur non necessariamente “materiale” in senso stretto“;
– che sarebbe applicabile sic et simpliciter il d.lgs. 70/2003 (magari mi si spieghi come impugnare certi provvedimenti).
Poi c’è qualcuno che cade dalle nuvole quanto si parla di supplenza della magistratura nei confronti del legislatore.

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