Category Archives: Diritto d’autore

No al bollino anche per il software (e molto di più)

Ennesima sentenza in tema di contrassegno SIAE, post Schwibbert (quasi non se ne può più, ma serve anche per SIAE che continua a dire pretendere soldi contro la legge perché, sino a nuovo ordine, il contrassegno è fuorilegge) .
Il sunto:
– assoluzione anche per alcune condotte relative al software (non soltanto per gli audiovisivi);
– assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;
– revocabilità (i.e. cancellazione) delle condanne patite per quei fatti.

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FIMI si è offesa…

… e minaccia denunce.
Al di là degli scricchiolii giuridici del comunicato riportato da Alessandro Longo (e gentilmente segnalatomi nei commenti), penso sia da ricordare che il redirect è un fatto obiettivo (imputabile a chi bene non si sa, ma Fastweb già si è tirata indietro, in modo un po’ fumoso) e che il fatto telematico è già stato “congelato” dalle consulenze di almeno tre qualificati informatici. Varranno qualcosa.
FIMI, invece di minacciare, visto che assume di conoscere la verità (ad esempio, che i discografici non sono responsabili, che può anche essere), dovrebbe spiegarci qualcosa sul redirect stesso. Se intende farlo, ovviamente. Parte svantaggiata, minacciando denunce per rispondere a fatti obiettivi. Un comportamento che si commenta da sé.

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Qualche spiegazione sul redirect di TPB – UPDATED

Chez Massimo Mantellini trovate notizie interessanti diffuse da Simone Gambirasio.
Peccato che, almeno per 3, non si spieghi la presenza del pecettone di sequestro su un sito di un privato straniero (verificata ora).
Che, personalmente, conforta i miei sospetti: che gli ISP hanno ricevuto ordini dalla GdF (PM e GIP sono soltanto pedine inconsapevoli) e tra le stellette vanno cercati i colpevoli.

Aggiornamento del poco dopo: A due commentatori (che ringrazio per l’attenzione) i conti non tornanano. E, anch’io, avevo qualche dubbio. Ci si riferisce a questa frase della risposta di Fastweb.

Ci preme infine precisare che l’architettura di rete che FASTWEB utilizza per la fascia residenziale della propria clientela è basata sul concetto di NAT (tecnica che consiste nel modificare, mediante router e firewall gli indirizzi IP dei pacchetti in transito, assegnando loro un altro indirizzo IP che viene utilizzato per le connessioni dirette al di fuori della rete FASTWEB): si può avere visibilità solo degli IP di navigazione (appunto IP di NAT), e pertanto non risulta tecnicamente possibile risalire ai dati anagrafici dell’utente FASTWEB che ha effettuato la navigazione“.

Ora, io, coi miei buoni limiti, l’ho capita così: che la rete Fastweb (residenziale) assegna un solo IP per tutte le connessioni che escono da un dato sistema che implementa la tecnica NAT. Qualcosa del genere, al suo tempo, mi era stato detto da un investigatore. Poi, però, io ho visto procedimenti (per roba su P2P) dove gli utenti sono stati immediatamente compiutamente identificati proprio grazie ai log di Fastweb. Peraltro, le ultime modifiche in tema di data retention introducono un vero e proprio obbligo di conservazione (con corrispondente sanzione amministrativa per l’omissione) specificando molto bene quali sono i dati da conservare.
Dove sbaglio? C’è qualcuno che può aiutare?

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Condivisioni

Molto fiero del fatto che le mie riflessioni a caldo sul caso The Pirate Bay (peraltro, prima di leggere il provvedimento, ma confermabili anche se bisognerebbe leggere tutti gli atti) siano state completamente condivise dal collegio difensivo, compreso il carattere “creativo” della decisione bergamasca.
Questo blog è più frequentato di quanto pensassi.

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UK: un altro caso Peppermint?

Penso che molti abbiano letto della recente battaglia inglese contro il P2P illegale.
Cinque software house di videogiochi si sono coalizzate, affidandosi ad uno studio legale di londinese, per perseguire 25.000 “sospetti” pirati.
Pagateci 300 sterline, per 5.000 di voi i giudici ci hanno già consentito di arrivare ai vostri nomi. Altrimenti, vi trasciniamo in giudizio (Repubblica riferisce un po’ diversamente, ma la sostanza non cambia).
Non v’è chi non veda che la cosa è del tutto analoga a quella che, l’anno scorso, ha riempito le cronache nostrane.
Che, dopo una manciata di provvedimenti favorevoli a Peppermint (e Techland), ha preso la strada opposta, con alcuni rigetti. E, addirittura, è giunta la censura del Garante.
Le leggi inglesi (in tema di diritto d’autore e privacy) discendono dalle stesse direttive poste alla base delle nostre regole. Così, ci si dovrebbe aspettare il medesimo esito. Vedremo.

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The Pirate Bay: il provvedimento di “sequestro”

Grazie ad una segnalazione dei commenti, informo che ICTLex ha pubblicato il tanto atteso provvedimento.
Da leggere, QUI.

In aggiornamento, segnalo anche il pronto articolo di Alessandro Longo su Repubblica. Mi sembra chiaro che, al di là del lodevole intervento di ALCEI, occorra, ora, fare qualcosa di più. Ci stanno già pensando.

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Redirect di The Pirate Bay: di male in peggio

Ieri sera ero in contatto con Matteo e mi ha anticipato un suo video riguardante ulteriori effetti del redirect del traffico destinato a The Pirate Bay.
Una connessione porta, anzitutto, con sé l’IP. E questo l’abbiamo già visto. Ma c’è di più. I cookie, ad esempio, con tutto quello che ne consegue.
Ecco il nuovo post di Matteo.
Non è superfluo ribadire il nostro sconcerto, sottolineare la gravità della cosa, denunciare ancora una volta fatti inaccettabili e di vasti profili di illegalità.
Intanto, per quel che potrà valere, ALCEI ha informato il Garante.

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Pubblico e privato (approfondimento)

Il titolo del post precedente non è coerentissimo con il contenuto. Volevo scrivere qualcosa in più, ma nella fretta di far girare una notizia tanto importante, ho chiuso.
Lascio il titolo e approfondisco qui.
In Italia succede sovente che le associazioni private collaborino con gli inquirenti, a volte sin dai primi passi, vale a dire con la denuncia di fatti penalmente rilevanti. Pensiamo alle associazioni di consumatori, quelle ambientaliste, quelle anti-pedofili. E via dicendo. In alcuni casi si tratta di associazioni meritorie, in altri ci si trova in presenza di sodalizi un po’ discutibili, quanto meno nei fini dichiarati. Normalmente, però, non si tratta di esponenti del mondo imprenditoriale.
Ma l’esperienza mi insegna che nessuna associazione è così “forte” come quelle legate alle major e ai produttori di sofware.
Queste associazioni lavorano in strettissimo contatto con gli inquirenti tanto che loro rappresentanti (le cui qualità professionali sono ignote) sono, molto spesso, nominati ausiliari di Polizia Giudiziaria nel corso di perquisizioni.
Ad esempio, il “fiduciario” BSA vi arriva in casa la mattina alle 6 insieme alla GdF (la stessa BSA “forma” i militi) ed è il vero regista della perquisizione (e taciamo sulle inesistenti cautele di forensics). Nel computer che si porta al seguito ha già un foglio elettronico con un produttore di software scritto su ogni riga. E i produttori di software indicati sono quelli hanno fondato la BSA. Degli altri non si interessa molto.
Il foglio elettronico serve per fare i conti. Per le sanzioni amministrative correlate ad un reato (art. 174-ter l.d.a.), il legislatore ha fissato un criterio proporzionale al prezzo di mercato del software. Dunque, tot software moltiplicato “quel” valore di mercato ed ecco, calcolata acriticamente sulla scorta delle “ipotesi” dell’ausiliario, la multa, talvolta milonaria. Il problema è che il tanto autorevole ausiliario commette (per ignoranza o malafede) un errore non da poco. Supponiamo che sia ritrovata una copia del software Alfa nella versione 3.0, di cinque anni fa, e che, oggi, la versione sia la 8.0. L’ausiliario attribuisce ad Alfa 3.0 il valore della versione attualmente in commercio. Abbiamo qualche aggettivo per questa analisi di mercato che, per giunta, passa come oro colato attraverso tutto il procedimento?
Bene, questo è soltanto un esempio degli esiti dei rapporti tra pubblico e privato, tra Giustizia e imprenditori dell’opera dell’ingegno. Ma, ora, i rapporti si dimostrano ancora più stretti e gli esiti a dir poco imbarazzanti. Ce lo dimostra il fatto descritto nel precedente post. Un’inibizione “atipica” che, in realtà, è una sorta di hijacking con il cartello “chiuso” gentilmente fornito dalla GdF (e da chi, altrimenti?) a chi? Ad un privato, inglese, il cui ruolo processuale ci è ignoto e che, anzi, è probabilmente inesistente. Malgrado ciò, ha avuto l'”onore” di prestare il proprio server per esporre l’editto bergamasco, magari anche collezionando IP originariamente destinati a TPB. Una cosa mai vista. 
Quale spavalderia, quale spregio per forma e sostanza.
Tutto questo deve finire. Le major e i produttori di software si servono della Giustizia per fini privati. E ciò è inaccettabile.

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Pubblico e privato: così non va

Matteo ha scoperto una cosa che può essere aggettivata in diversi modi: inopportuna, inquietante, preoccupante, intollerabile, vergognosa… financo… illegale, forse.
Che succede se uno prova a raggiungere www.thepiratebay.org? Con Alice Telecom, semplicemente non raggiungibile. E, così, mi risulta anche con Fastweb. Ho poche notizie degli altri provider, ma posso confermare la scoperta di Matteo utilizzando 3. Ho provato personalmente con quel provider con un TYTN II WM6 ed Explorer mobile.
Bene, il sistema ti spara su una pagina dell’IP segnalato da Matteo e lì potete trovare un pecettone della GdF di Bergamo che segnala “inibizione all’accesso” della Baia. Curioso, peraltro, che non si menzioni espressamente il “sequestro”.
Ma la cosa preoccupante è che l’IP risolve su… www.pro-music-org. Che è il dominio di un’associazione internazionale di discografici.
Ora, quando sequestrano un sito, normalmente vanno dal provider, smanettano sulle macchine e rendono indisponibili i materiali ritenuti illeciti. In più, fanno in modo di rendere visibile l'”avviso” di sequestro. Come sappiamo, però, in questo caso hanno proceduto con un bizzarro (e abnorme) sistema dell’inibizione (imponendo modifiche ai DNS).
Il problema è che oltre a questa procedura quanto meno “anomala” di inibizione, il deviare il traffico su un sito di terzi, privati, neppure italiani e chissà quanto affidabili visto che sono parti interessate, rende possibile, quanto meno, la registrazione degli IP dei visitatori che potrebbero essere additati come pirati. O, forse, lo scopo è proprio quello…
Che dire? Che la privacy degli utenti italiani è seriamente a rischio e di ciò dobbiamo ringraziare l’Autorità che sta operando al di fuori della legalità, di ogni buona regola giuridica e tecnica.
E’ una cosa insostenibile. Fermiamola!

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The Pirate Bay: tre questioni tre – UPDATED

Per i più interessati alle questioni giuridiche, partendo dal presupposto (non certo, ma altamente probabile) che il reato contestato sia quello di cui all’art. 171-ter, comma 2, lett. a-bis) l.d.a. (a leggere la stampa, gli inquirenti riconoscerebbero il lucro nella presenza di banner), direi che le questioni giuridiche sono tre:
– giurisdizione italiana – subito, l’ho data per scontata, ma non è corretto perché, se parliamo di reati commessi mediante la Rete, è sempre la prima cosa alla quale dobbiamo guardare;
– responsabilità di un torrent tracker (che è, in sostanza, un motore di ricerca + indicizzatore di file torrent) per fatti di “comunicazioni” non consentite di opere dell’ingegno;
– riconducibilità allo schema del sequestro preventivo (ora ne sono certo, ho ricevuto una… “soffiata”) dell’inibizione dominio/IP.
Soltanto un punto di partenza, ma direi che le questioni principali sono queste. Peraltro, decisive.

Aggiornamento dell’ora di pranzo: Alessandro Longo, che ha letto il provvedimento, ci riferisce di cose che, a mio modo di vedere, rappresentano un esempio di creatività giudiziaria ai massimi livelli.

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