Molti hanno puntato il dito su Facebook, il più “popolare” (in tutti i sensi) social network, accusato di diffondere, ancora una volta, notizie false.
Come quella dell’altro giorno secondo la quale la Cassazione avrebbe sancito l’impossibilità del carcere per gli stupri del “branco”.
Niente di più falso e ho cercato di spiegarlo nell’articolo che segue. Credo, però, che tutto sia partito da un’altra fonte.
Gli utenti del social network blu sono spesso boccaloni, ma tendenzialmente in buona fede, ma i media tradizionali amano notoriaemnte fare i titoloni.
Per tacere dei politici che hanno commentato la notizia.
(da Giornalettismo del 3 febbraio 2012)
La notizia, riportata da molte fonti nelle ultime ore, secondo cui chi commette uno stupro di gruppo non andrebbe in carcere è completamente falsa.
Vero è, invece, che la Corte di Cassazione ha detto – ed io credo in modo corretto – che il giudice cui è richiesta l’applicazione di una misura cautelare in relazione al reato menzionato, non è costretto all’alternativa “secca custodia cautelare oppure nulla”, con l’impossibilità di graduare con misure più lievi come gli arresti domiciliari.
In realtà, la questione è piuttosto complessa, ma va comunque chiarita con un rapido allargamento di orizzonte.
Iniziamo col dire che per questo genere di reati, non v’è alcun dubbio sono previste pene detentive non lievi che, però, vanno chiaramente eseguito soltanto con il passaggio in giudicato della condanna. La sentenza depositata il 1° febbraio riguarda, invece, lo specifico tema delle misure cautelari, vale a dire quelle misure limitative delle libertà personali che si possono applicare, prima del giudicato, per motivi di cautela.
Il nostro ordinamento consente di applicarle a condizione che sussistano due principali requisiti: i gravi indizi di reato e le esigenze cautelari (pericoli di inquinamento probatorio, di fuga, di reiterazione). Esistono diverse misure perché esse vanno strettamente rapportate al caso concreto. La più afflittiva è senza dubbio la custodia cautelare in carcere (la carcerazione preventiva, come si diceva un tempo con un’espressione meno edulcorata di quella odierna), ma ve ne sono anche altre che, pur comportando sempre una sorta di detenzione, sono più attenuate: tipicamente, gli arresti domiciliari.
E in base alla scala, ve ne sono di ancora di più lievi, ad esempio il divieto di espatrio. Il giudice ha, dunque, la possibilità di scegliere tra una di queste, ma deve attenersi ai criteri dati proprio dal codice di procedura penale, tra cui c’è anche quello che individua nella custodia cautelare l’extrema ratio del sistema. Ciò sino al 2009, quando un decreto legge in seguito convertito, ha eliminato questa possibilità di scelta, limitatamente, però, ad alcuni reati tra cui quello di cui parliamo (art. 609-octies c.p.). In sostanza, per taluni reati di natura sessuale, anche in presenza di una pur lieve esigenza cautelare il giudice era sempre obbligato ad applicare la custodia cautelare in carcere. Altrimenti detto: presunzione assoluta di inadeguatezza di altre misure.
Questa soluzione è stata oggi disattesa dalla Cassazione perché la questione non era del tutto nuova. I giudizi di piazza Cavour, infatti, si sono ricordati di una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 265 del luglio 2010) la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della regola del 2009 (ma con riferimento ad altri reati sessuali, tra cui quello di atti sessuali con minorenne) per il contrasto con ben tre norme costituzionali (artt. 3, 13, comma 1, 27).
La Cassazione, dunque, avrebbe potuto chiedere alla Consulta che si pronunciasse anche sullo stupro di gruppo, ma ha ritenuto che i principi espressi nel 2010 fossero già direttamente applicabili a quest’ultimo reato. Oggi, allora, il giudice della cautela potrà nuovamente applicare una misura più lieve rispetto alla custodia cautelare anche nei casi di stupro di gruppo.
Nessuna impunità, dunque. Soltanto il ritrovato spazio per una più ponderata gestione del caso concreto da parte del giudice in un momento in cui non vi è condanna definitiva.