Prima o poi doveva succedere. Se non v’è certezza sul luogo di consumazione del reato di diffamazione telematica e non vi è un orientamento univoco (il mitico “luogo del server”? il domicilio della persona offesa? il luogo dell’immissione del documento, ecc.) è ovvio che i tribunali litighino (si fa per dire) tra loro per celebrare il processo. E’ il conflitto “positivo” di competenza per territorio, alla fine risolto dalla Cassazione con una sentenza (la n. 16307/2011) depositata proprio oggi (visibile QUI).
Ma la Suprema Corte, in realtà, ha tagliato corto. Pur ricordando i vari orientamenti seguiti dalla giurisprudenza (anche civile), si è arresa alla quasi impossibilità di utilizzare criteri oggettivi (nonché unici e predeterminati) affermando la piena operatività dei criteri suppletivi fissati dall’art. 9, comma 2, c.p.p. e concludendo, nel caso concreto, per la prevalenza della residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato (o indagato).
QUI il commento di Chicco Micozzi il quale ritiene che un’occhiata ai log possa aiutare a trovare ciò che per la Cassazione è difficilissimo provare. Io sono meno convinto di ciò, non per l’impossibilità tecnica, ma per la breve (almeno dovrebbe essere tale) persistenza dei log del server.
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Grazie per la citazione Daniele!
In realtà io dico che non si può ritenere cristallizzata l’applicazione della regola suppletiva per tutti i casi di diffamazione via internet ma si debba compiere – volta per volta – un’analisi tesa a verificare l’applicabilità o meno della regola generale prevista dall’art. 8 del codice di rito.
Poi… è naturale che se non ci sono altri elementi si applica la regola suppletiva.
Ne parlo più diffusamente qui: http://www.micozzi.it/?p=326
saluti
francesco
Chicco, infatti ho chiarito *nel caso concreto*.
Allora siamo perfettamente in sintonia. Il problema è che il Collegio dice solo di adeguarsi al “suesposto orientamento”… non parla di alcuna verifica preliminare relativa al caso concreto… è questo che mi faceva “preoccupare”.
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