Nei giorni scorsi sono state pubblicate le motivazioni di una pronuncia in tema di divulgazione di materiali pedopornografici via P2P (nel caso particolare, Kazaa, ma la cosa vale anche per Emule, ad esempio). Si tratta della sentenza della Cassazione n. 44065/2011.
In sostanza, la Corte Suprema, riprendendo alcuni precedenti giurisprudenziali, ha statuito che il semplice uso di programmi peer-to-peer non basta a fondare una condanna per detto reato, ma occorre qualcosa di più. Si pensi, in particolare, alla condivisione automatica di certe applicazioni che, peraltro, può attivarsi ancor prima del download completo.
Ed è un tema molto importante che, personalmente, mi trovo quasi sempre ad affrontare nei processi dove sono difensore.
Al di là di ciò, mi ha colpito un passaggio, pur incidentale, che, personalmente, trovo “rivoluzionario” (v. in fondo)
Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perché il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della masse degli utenti e che, nello smesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito, soltanto perché stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere.
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