Ieri ho scritto una cosina su Giornalettismo circa le affermazioni di Vinton Cerf in ordine al diritto all’accesso ad Internet.
Riassunto essenziale: Cerf nega che il diritto de quo sia un diritto umano (più correttamente, nella prospettiva linguistica ricordatami da un amico, “diritto dell’Uomo”) e il suo pensiero può essere riassunto in una sola frase “technology is an enabler of rights, not a right itself”.
Le ragioni del sì, dell’opposta tesi, sono note e, volendo rimanere anche soltanto in Italia, partono dall’iniziativa di Stefano Rodotà con il supporto di Wired.it per arrivare ad un disegno di legge presentato al Senato e volto all’introduzione, nella Costituzione, di uno specifico art. 21-bis riservato alla Rete.
Le motivazioni del fronte del sì sono nobili, non si discute. Purtroppo, però, c’è il classico equivoco di fondo: chi (come me) sta dalla parte del no, non vuole negare il diritto all’accesso ad Internet, ma lo ritiene già presente sia tra i diritti dell’Uomo internazionalmente riconosciuti che nelle Costituzioni di molti paesi.
Nella nostra, ad esempio, è pacificamente ricompreso nell’art. 21 il quale fissa il diritto alla libera espressione del pensiero e quello all’informazione; e questi ultimi stanno ad Internet come il fine sta al mezzo. Personalmente, credo che ciò non possa essere messo in dubbio.
In conclusione, malgrado i nobili motivi e gli autorevoli sponsor, l’iniziativa, oltre a non avere basi giuridiche nel senso meglio visto, rischia di essere mera propaganda.
Occupiamoci della concreta e quotidiana attuazione dell’art. 21 Cost., talvolta dimenticato anche nei nostri tribunali, usiamo meglio le nostra risorse umane.
Aggiornamento del classico poco dopo: leggo alcuni commentatori che affermano che Cerf neghi che l’accesso ad Internet sia un diritto dell’Uomo; ma l’hanno letto l’articolo sul NYT? Cerf dice che è compreso in altri diritti, quelli citati nel post.
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