(da Punto Informatico del 27 marzo 2007)
Roma – Perché in molti (quasi tutti, per la verità…) se la prendono col Garante in relazione allo stop mediatico sui fatti di Vallettopoli? Non è difficile leggere, tra le righe (ma anche espressamente), accuse di “coperture” politiche.
È noto che le voci critiche insinuino l’esistenza di un favor per l’on. Sircana (pur non nominato dal Garante, tanto da lasciare dubbi di genericità del divieto). Che non è un uomo qualunque (tanto meno una “semplice” valletta, è il portavoce di Romano Prodi), ma sarebbe persona da “proteggere” per ragioni politiche anche perché rappresenta una determinata parte. E a farne le spese, ingiustamente, sarebbe stata la stampa e, in particolare, il direttore de Il Giornale, Maurizio Belpietro. È veramente così? Non è facile dirlo.
Vediamo il provvedimento. Io ho notato subito una cosa parecchio evidente e preoccupante, almeno per chi “frequenta” i provvedimenti del Garante. Si tratta di questo passaggio: “dato che la violazione del presente provvedimento costituisce reato perseguibile d’ufficio, punito con la reclusione da tre mesi a due anni (art. 170 del Codice), ed è fonte di responsabilità risarcitoria per danno (art. 15 del Codice)”.
È una “minaccia” forte che, molto semplicemente, significa “non pubblicate, altrimenti finirete in galera e sarete costretti a pagare un sacco di soldi di risarcimento”.
A parte il successivo consenso dell’interessato che ha determinato il superamento del problema, una “minaccia” di questo genere è legittima? Tutte le disposizioni penali, nell’incontro tra precetto e sanzione, ci dicono, in buona sostanza, “se fai ciò che è vietato rischi la galera”. Ed è legittimo.
Il problema sorge quando la “minaccia” proviene non dal legislatore, ma da un’autorità amministrativa. La “minaccia” è legittima soltanto quando dietro l’autorità c’è una legge che la prima si limita a “ricordare”.
Riporto l’articolo 170.
Art. 170. Inosservanza di provvedimenti del Garante Chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento adottato dal Garante ai sensi degli articoli 26, comma 2, 90, 150, commi 1 e 2, e 143, comma 1, lettera c), è punito con la reclusione da tre mesi a due anni.
Di per sé dice poco, è vero. Ma è chiaro che il reato si perfeziona esclusivamente se non si rispettano alcune tipologie di provvedimenti e non, in generale, tutti quelli del Garante. Eccoli:
– provvedimenti relativi al trattamento di dati sensibili (art. 26, comma 2);
– provvedimenti relativi al trattamento di dati genetici e donatori di midollo osseo (art. 90);
– provvedimenti a seguito di ricorso al Garante (art. 150, commi 1 e 2);
– provvedimenti a seguito di reclamo al Garante (art. 143, comma 1, lett. c).
Apparentemente, dunque, il provvedimento in commento non appartiene alle predette tipologie, dunque l’operato del Garante potrebbe apparire illegittimo. Però… il però c’è sempre.
Quando il trattamento riguarda l’attività giornalistica e si ritiene che vi sia una violazione deontologica (valutazione, in questo ambito, fatta dal Garante e non da un Ordine – caso assai anomalo e stonato) si applica l’art. 139 secondo cui il Garante può vietare il trattamento ai sensi dell’articolo 143, comma 1, lettera c). E così, tornando alla norma cruciale di cui sopra, si spiana la strada anche all’operatività dell’art. 170, quello che prevede il reato.
Contrariamente a quanto letto e sentito in giro, il recente provvedimento non è un caso unico di divieto di trattamento o anche soltanto diffusione. Ricordo tre noti precedenti: quello riguardante il caso Le Iene, droga in Parlamento, quello relativo ai dati sanitari di Lady Diana e quello sul caso di Lapo Elkann. E ce ne sono altri relativi alla posizione di “comuni mortali”, occorre dirlo. Ad esempio questo, sempre contro Le Iene.
Non ricordo, però, un richiamo così particolarmente “minaccioso” al reato di cui all’art. 170, un sinistro tintinnìo di manette ribadito anche nel comunicato stampa di presentazione del provvedimento e sottolineato da questo passaggio: “stabilisce che ciascuna violazione venga denunciata senza ritardo dal Garante alla competente autorità giudiziaria (art. 154, comma 1, lett. i), del Codice)” (come se non bastassero le ordinarie regole sulla denuncia di reato e la stessa regola, particolare, richiamata).
Tutto ciò, abbinato ai tempi di pubblicazione del provvedimento (il giorno dopo i fatti), va tenuto in considerazione per giudicare l’operato del Garante.
E torniamo al diritto. Abbiamo visto che certi poteri in capo al Garante hanno il loro fondamento giuridico (malgrado i metodi). Ma Manlio Cammarata fa bene a ricordare l’art. 21 Cost. laddove, in modo inequivocabile, recita: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Il fatto è che, in modo parzialmente dissimile da Manlio, io ritengo che il problema stia più nella legge che in chi la applica. Tanto che mi verrebbe da consigliare ai destinatari dell’antipatico provvedimento un’impugnazione davanti al TAR sollevando, in quella sede, una questione di legittimità costituzionale delle norme sopraindicate.
avv. Daniele Minotti
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